lunedì 13 dicembre 2010

La via più breve

Dicono che la via più breve tra due punti sia una retta. Apparentemente a Firenze no.

La settimana scorsa sono arrivato alla stazione di Firenze (punto A), e dovevo andare nel punto B. L'unico autobus che porta in zona è attualmente il 23, per cui, dopo aver ritrovato la fermata (che più o meno ogni 2 mesi viene spostata), sono salito a bordo. Alcune persone dovevano andare in piazza S. Marco (punto C), per cui han chiesto conferma all'autista che l'autobus fosse quello giusto. Per andarci a piedi si può seguire il tracciato verde, è circa un km, 12 minuti secondo Google Maps.

L'autobus parte e imbocca il tracciato azzurro. Le strade intorno alla stazione sono strette e trafficate, per cui ci mette un quarto d'ora per arrivare a viale Strozzi. Dopo circa 25 minuti è finalmente in piazza S. Marco, con le signore che stanno imprecando. Altri 8 minuti e arrivo in vista della mia destinazione, ma giunto sul Lungarno il bus gira a destra anziché a sinistra. Siccome lo so, scendo e mi faccio a piedi il breve tragitto che rimane. Dopo 38 minuti sono finalmente arrivato, l'autobus si intravede in lontananza, a fare il giro ci mette circa 10 minuti.

Seguendo il tragitto rosso (circa 2,8 km) a piedi ci avrei messo 34 minuti, sempre secondo Google, al mio passo meno di 30. L'autobus ce ne ha messi oltre 40, per un percorso complessivo di 7.4 km.

Non si tratta purtroppo di una situazione eccezionale. I tragitti degli autobus a Firenze sono praticamente tutti di questo tipo, per la necessità di servire l'area più vasta possibile con una sola linea. Le chiusure agli autobus del centro sono affrontate con detour anziché con una riprogettazione della linea (o del servizio), per cui i percorsi si allungano ulteriormente. Ad es. se ci fosse una fermata su viale Strozzi vicino a via Valfonda, uno potrebbe prendere l'autobus lì ed evitare il giro dantesco iniziale, ma non ce n'è. I poveri autisti si barcamenano con utenti incazzati, informazioni che mancano, col traffico.

E alla fine, a Firenze, se hai fretta non conviene prendere l'autobus, molto meglio andare a piedi.

domenica 5 dicembre 2010

Made in Italy


La legge 185/90 disciplina le transazioni commerciali di armi. Tradotto in italiano, dice a che condizioni una ditta può vendere armi all'estero. Tra gli obblighi vi è quello di specificare la banca su cui ci si appoggia per i pagamenti, e gli importi. Questo consente, ogni anno, di stilare un elenco delle cosiddette banche armate, le banche che sono coinvolte, per cifre più o meno grandi e per varie tipologie di armi, in questi commerci.

Possiamo ad esempio sapere che vendiamo aerei in Nigeria, e un sacco di materiale in Turchia, paese noto per interessanti "triangolazioni".

O Banca Etica ha potuto scoprire che alcune banche con cui collaborava erano coinvolte in queste operazioni, e ha quindi spinto perché ne uscissero.

Questo non fa piacere né alle ditte coinvolte né alle banche, per cui ci sono fortissime pressioni per non applicarla, almeno in parte. E così da 3 anni dal rapporto annuale che il Ministero degli Interni è sparita la tabella delle singole operazioni, prevista dalla legge, per cui sappiamo solo gli ammontari complessivi ma non i chi e i cosa. E l'attuale governo sta preparandosi a modificare in modo radicale la legge.

Di fatto l'industria bellica è un punto di forza del nostro export, e in questo periodi di crisi "tira" parecchio: nel 2009 sono state concesse autorizzazioni alla vendita di armi per 4.9 miliardi, il 60% in più dell'anno prima. Intere città vivono di questo. Peccato che queste armi siano destinate (anche) alle polizie degli stati più dittatoriali, o ad alimentare conflitti in diverse parti del mondo.

È difficile immaginarsi 4.9 miliardi. Sono 75 euro a testa che entrano in Italia. 300 euro per una famiglia di 4 persone. Se ci chiedessero di sborsare tutti 75 euro a testa per non esportare armi, lo faremmo?

Il tutto mi è tornato in mente leggendo questo post dell'amicoClaudio Casonato, e quando ho ricevuto una lettera di un ex allievo di un istituto aeronautico, che vi allego.

All’attenzione del Dirigente Scolastico e del corpo docenti del “Fauser”, Novara

Io sono stato uno studente, tra i migliori, che ha frequentato il “Fauser” tra il 1985 e il 1988. Ho fatto tanti sacrifici per raggiungere il diploma… i viaggi ogni giorno in treno da Vanzaghello alle 6.51, lo studio intenso ed ampio… e tanti sacrifici li hanno fatti i miei genitori, provenendo da una famiglia semplice e povera.

Il “Fauser”, ai miei tempi, era l’ITIS di Costruzioni Aeronautiche più importante (e più duro) del Nord Italia. Io l’avevo scelto per la passione del volo che avevo ed ho… tanto che quando ho partecipato alla “top gun” per studenti provenienti da tutta Italia (nel 1987) all’aeroporto militare di Cervia sono arrivato 16° su una lunga fila di partecipanti (in “teoria” li battevo tutti; un po’ meno a guidare l’aereo… per cui non sono arrivato in finale per questo motivo).

Sinceramente ora però vi devo confidare che provo vergogna nell’essere un “fauseriano”; il vostro Istituto ha preso delle scelte che sono profondamente contrarie alla vita e allo slancio per il volo.

Iniziamo da un fattore ‘estetico’. L’Aermacchi MB 326 che avete issato all’ingresso dell’istituto come una bandiera. Ma lo sapete quante morti ha sulla coscienza quell’aereo?

In Italia è stato venduto come addestratore militare per i piloti che poi avrebbero volato anche sui Tornado e AMX. Ma all’estero? Ve lo siete mai chiesto? Vi aiuto io. È stato venduto a: Sudafrica (violando l’embargo internazionale a causa dell’Apartheid), Congo, Ghana, Zambia, Nigeria, Tunisia, Dubai, Argentina, Perù, Brasile, Australia e Malesia. E lo tenete ad immagine del vostro istituto?

Recentemente, poi, ho saputo del corso post-diploma che dovrebbero seguire alcuni studenti per la preparazione a diventare tecnici per la costruzione del cacciabombardiere F35 a Cameri (NO). E qui, lo ammetto, le mie residue capacità di pazienza e di rispetto per la scuola che ho fatto sono venute meno ed è subentrata una grande indignazione. Ma vi rendete conto di quanto ciò significhi? L’F35 non è un addestratore militare (pur ripudiando anche quella scelta) ma è un cacciabombardiere da attacco al suolo, nato non per giacere in un hangar, ma per distruggere villaggi, famiglie… come le nostre… come le vostre. E gli studenti che faranno questa scelta? Non so quanto saranno liberi in coscienza di farla o saranno condizionati dalla scuola, dalla famiglia, dai mass-media, dai politici locali… In entrambi i casi non posso che disapprovarla radicalmente ed, essendo la lettera indirizzata a voi insegnanti, vi chiedo e vi imploro di non indottrinare militarmente gli studenti. Fate obiezione di coscienza: io mi rifiuto di insegnare quella parte di materia; io mi rifiuto di portare i miei studenti in visita a Cameri, in Aermacchi, in AgustaWestland, come esempi da seguire professionalmente per la loro vita.

A costruire armi, usiamola finalmente questa parola e svestiamo i surrogati (“intercettore”, ecc.) che sono usati per coprire gli aerei o gli elicotteri che andranno ad assemblare viene meno anche l’umanità di chi le costruisce. È un investimento di energie, intelligenze, tempo, passione che va contro la costruzione e il rispetto per la vita, tutto a sottrazione di tempo, energie, denari, ecc. che dovrebbero andare a finire nella direzione della difesa della vita. Oppure non è più questo che una scuola deve trasmettere agli studenti, al di la delle materie didattiche? Far loro fare un cammino di coscienza per arrivare a scegliere quale sarà il loro futuro professionale migliore per loro e per coloro che vivono intorno a loro, siano essi vicini o fisicamente lontani?

Vi chiedo di fermarvi a riflettere su questa lettera e sui contenuti che fate passare agli studenti. Grazie!

Samarate (VA), 16/11/2010

Stefano Ferrario