domenica 2 giugno 2024

Neutralità tecnologica e scelte energetiche

Visto che tra qualche settimana si vota, mi sono letto i programmi dei partiti relativamente ai temi che ritengo più importanti, e tra questi in particolare quelli legati alla crisi climatica. Il lavoro è confluito anche in una “pagella” che l'associazione Climalteranti ha dato a questi programmi, e che potete trovare qui. Avevamo fatto lo stesso lavoro per le ultime elezioni politiche, e da allora ho notato diversi cambiamenti. 


Innanzitutto oggi tutti parlano di cambiamenti climatici, dedicandoci almeno un capitolo del programma. Nessuno nega che esista un riscaldamento globale dovuto alle nostre emissioni, e la necessità di una profonda decarbonizzazione. Be’, quasi nessuno, un paio di liste proprio non ne parlano, se non per dire che in Europa si esagera. Ma comunque ancora c’è uno spartiacque, rappresentato dagli obiettivi europei del Green Deal. Un blocco di partiti sostanzialmente li ritiene doverosi, sono impegni che (con differenze sul come, ma non sul quanto e quando) è necessario rispettare. L’altro blocco li ritiene velleitari, irrealizzabili, e da ri-contrattare. In particolare la frase che ricorre è quella della “neutralità tecnologica”. Siccome non è chiaro a molti cosa significhino riconversione energetica e neutralità tecnologica, e cosa implichino, provo a spiegarlo qui, con qualche considerazione.

A scanso di equivoci, so benissimo che i programmi elettorali sono promesse, belle intenzioni, che nessuno garantisce verranno rispettate. E so benissimo che ci sono molti modi di fare le cose, inclusa la lotta ai cambiamenti climatici. Ma esistono alcuni punti fermi, dettati dalla realtà. Qui parlerò solo di questi. 

Un breve inquadramento

Sappiamo che bruciare combustibili fossili causa un aumento di temperatura. O almeno dovremmo saperlo, in un incontro sul tema a cui erano invitati i responsabili delle politiche ambientali dei vari partiti, non sembrava chiaro a nessuno quanto questo legame fosse forte, di quanto le temperature siano già aumentate, e cosa significhi, in concreto, questo aumento. Soprattutto non è chiaro cosa si debba fare: eliminare completamente i combustibili fossili. Niente più benzina, metano, carbone, gasolio per camion e trattori. Il contatore del gas di casa vostra non ci sarà più. Niente più distributori. Chiaramente non si può fare dall’oggi al domani, ma va fatto, e abbiamo pochi decenni, due, tre al massimo, per farlo. Sottolineo, non si tratta di produrre la sola energia elettrica con fonti rinnovabili, ma di usare fonti non fossili per tutto: scaldarsi, muoversi, cucinare.

L’alternativa è terrificante: aumento del livello dei mari di diversi metri, crollo della produzione agricola in interi subcontinenti (e l’Italia è tra le zone a rischio, il calo della nostra produzione agricola si vede già ora), spostamenti di centinaia di milioni di persone da regioni diventate inabitabili. 

Regioni italiane che finiranno sommerse con 2 gradi di riscaldamento aggiuntivo

 La transizione energetica è questo: passare da un sistema che si regge sulle fonti fossili, facili da usare, trasportare, conservare, a uno che si regga su altro.

La Comunità Europea ha quindi deciso una serie di obiettivi per arrivarci in modo graduale, in una seria di documenti. In particolare Fit For 55, che prevede una riduzione del 55% delle emissioni nel 2030 rispetto ai livelli del 1990, ottenuta elettrificando una serie di consumi (riscaldamento, trasporti) ora alimentati da fossili, e generando oltre l’80% dell’energia elettrica necessaria da rinnovabili. L’obiettivo finale è la neutralità energetica entro il 2050: a quel punto le emissioni dovute al residuo, limitatissimo, uso di fonti fossili verrebbe compensato da misure di assorbimento della CO2 (in particolare riforestazione). I tempi sono quindi molto stretti: la prima fase ci lascia appena 6 anni, in cui dovremo installare in media ogni anno rinnovabili pari a 6 volte quello che facciamo ora, e in cui dovremo prevedere cambiamenti importanti nel modo di fare alcune cose. E in 25 anni dovremo cambiare praticamente tutto. Se pensiamo che 25 anni fa festeggiavamo il cambio di millennio non è molto tempo, è chiaro che serve iniziare subito.

La neutralità energetica

E qui entra la neutralità tecnologica: cosa è l’altro da usare? In fondo quel che conta è il risultato. Se per non bruciare benzina faccio andare un’auto con energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili, o con del carburante ottenuto da piante, in fondo è lo stesso. O no? Perché la Comunità Europea favorisce alcune soluzioni e non ne considera altre? È un ragionamento sensato, e difatti viene ribadito in molti documenti della stessa Unione Europea. Ma proprio perché i risultati contano, occorre utilizzare soluzioni che funzionano. Le tecnologie per non bruciare fonti fossili sono studiate da decenni, è ormai mezzo secolo che sappiamo dove si va a parare, e quindi sappiamo grossomodo quali funzionano e quali no, quali hanno spazi di miglioramento e quali ce le teniamo come sono. Soprattutto sappiamo stimare quante ne servano. Quindi la neutralità tecnologica deve misurarsi con i numeri, altrimenti non è neutrale, è ideologica.

Sembra che il discorso della transizione energetica ruoti intorno a due punti: le auto elettriche e il riscaldamento ed isolamento degli edifici. In particolare il nostro governo contesta la spinta verso l’elettrificazione dei trasporti, e la normativa Case Green. Non è un caso, il trasporto privato e il riscaldamento domestico sono responsabili rispettivamente del 18% e del 13% delle emissioni, insieme fanno circa un quarto del totale. E sono anche quelli su cui sarebbe più semplice agire. Un’auto elettrica produce meno della metà delle emissioni rispetto ad una a derivati del petrolio, quasi tutte durante la sua costruzione (perché costruire qualsiasi cosa usa energia e produce emissioni). Le nostre case sono isolate malissimo, e anche interventi relativamente “leggeri” (sostituire le finestre e isolare i punti che disperdono maggiormente) consentirebbe di dimezzarne i fabbisogni di riscaldamento. Se poi invece del gas utilizziamo delle pompe di calore riduciamo questi fabbisogni di ulteriori 3-4 volte.

Emissioni nell'UE per settore. I trasporti includono quelli per nave e su camion.

Biocarburanti, idrogeno e auto elettriche

Il nostro paese ha puntato moltissimo sull’industria automobilistica, e sul motore endotermico. Scelta sensata 50 anni fa, ma meno oggi, quando un’auto su 5 venduta nel mondo è elettrica, e in un paese dove le auto circolanti sono ormai 7 ogni 10 abitanti.

Il discorso dell’auto come mezzo di trasporto individuale è complesso, ed è difficile farlo qui in poche righe. Come dice un mio amico su “La Chimica e l'industria”: Per esempio invocare semplicemente l’auto elettrica privata di massa è un errore; l’auto elettrica ha un senso se affiancata ad una crescita dei trasporti pubblici e ad una riduzione dell’uso del mezzo privato; una sola auto elettrica è meglio di una sola auto fossile, ma un miliardo di auto elettriche no! Senza questo cambio di paradigma economico e di visione della società umana, che è quello che veramente sta stretto agli attuali detentori della ricchezza, le cose non possono migliorare. Insomma qua non si tratta di rigirare la frittata, ma di imparare a cucinare in altro modo.

Ma è possibile pensare a mantenere il parco auto attuale e passare ad altri combustibili? La soluzione più semplice è impiegare biocarburanti. Un ettaro coltivato a colza produce un 1000 litri di biodiesel, con cui, se va bene, si possono percorrere 20 mila km, la percorrenza media annuale di 2 auto. Altre colture possono dare risultati migliori, ma difficile fare più del fabbisogno per 5 auto. Coltivando l’intera superficie agricola nazionale (12 milioni di ettari) a biocarburanti, possiamo alimentare da metà a tutte le auto circolanti, ma resterebbero fuori i camion. E naturalmente non potremmo mangiare (ricordo che l’Italia, già ora, importa cibo perché non è autosufficiente alimentarmente). Un ettaro a pannelli fotovoltaici (che possono essere messi su terreni poco o niente produttivi, o su diversi tipi di colture come “agrivoltaico”) si produce invece una quantità di energia elettrica sufficiente a 800 auto elettriche, 200-400 volte tanto. Per coprire l’intero fabbisogno energetico di tutte le auto italiane, elettrificate, camion inclusi, basterebbe circa l’1% della superficie coltivabile, se anche volessimo usare quella invece di aree meno pregiate.

Ma possiamo sintetizzarli, i biocarburanti. Per farlo serve innanzitutto produrre idrogeno, per elettrolisi. L’idrogeno è una sorta di mantra, di parola magica per evocare futuri radiosi in cui tutto rimane come prima, solo che è diventato “verde”. Ma per produrre idrogeno serve energia. I migliori idrolizzatori industriali hanno un’efficienza del 60%, 4 chilowattora su 10 sono già persi in questa fase. Se vogliamo impiegarlo in un motore a combustione, con un’efficienza del 80-20%, dei 10 kWh iniziali ce ne resta solo uno. Il nostro ettaro di pannelli fotovoltaici basta ora per 80 auto a combustione interna alimentate ad idrogeno, con costi chilometrici circa 10 volte maggiori rispetto ad un’auto elettrica. L’idrogeno poi è difficile da immagazzinare e trasportare, e l’autonomia di questo tipo di auto sarebbe decisamente bassa. Difatti i pochi tentativi di auto ad idrogeno usano celle a combustibile, sono un diverso tipo di auto elettrica, e quindi tanto vale usare direttamente queste ultime. 

Possiamo anche sintetizzare benzina o metano. I processi per farlo sono noti, si può fare, ma la resa energetica è ancora minore. Ha senso per le applicazioni (come gli aerei) dove le batterie o i pesanti contenitori per idrogeno sarebbero impraticabili. È anche una possibile soluzione per produrre scorte di energia da usare nei periodi di carenza di sole e vento, ma non per le auto. 

Quindi la “neutralità tecnologica”, per le auto, si traduce in: vogliamo mangiare o far viaggiare le auto? Se vogliamo mangiare, meglio non usare biocarburanti. Il dilemma non è così ovvio, le persone che vogliono viaggiare il cibo lo hanno comunque, non sono sempre le stesse che vogliono mangiare. Oggi una buona fetta dei biocarburanti deriva da coltivazioni di palma da olio, in paesi dove chi sceglie cosa coltivare non è chi preferirebbe mangiare. Il costo del grano è cresciuto molto, negli ultimi decenni, per la domanda di alcol da addizionare alla benzina.

Caldaie e pompe di calore

Le nostre case sono dei colabrodi energetici, se spegniamo il termosifone in una fredda giornata invernale bastano poche ore per ritrovarsi a battere i denti. Molte finestre hanno ancora vetri singoli, gli spifferi sono la norma, sotto le finestre i muri sono spesso più sottili per ospitare il termosifone, le pareti e i solai sono se va bene una ventina di cm di foratoni, se va male calcestruzzo o mattoni pieni, che sono pessimi isolanti. Il risultato è che le nostre bollette del gas sono spaventose, 1000-2000 euro sono la norma. Un cattivo isolamento significa anche dover tenere temperature interne degli edifici più alte: se il termostato è a 23 gradi, vicino ad una parete fredda o a una finestra potrei trovarmene 18 (e questo è il motivo per cui mettiamo lì i termosifoni, nei punti di massima dispersione). Isolare la casa, eliminare gli spifferi, cambiare le finestre, aggiungere isolamento anche solo nei punti peggiori può facilmente ridurre le dispersioni a meno della metà, che a sua volta riduce la necessità di tenere il riscaldamento a temperature elevate. In nuovi edifici i risparmi ottenibili sono ancora maggiori, e le bollette potrebbero scendere a poche centinaia di euro, o anche meno. 

Immagine infrarossa del mio condominio, con le evidenti dispersioni

Io l’ho sperimentato direttamente, cambiando gli infissi ed isolando un solaio, in una casa che comunque partiva già non messa malissimo, sono passato da 410 a 160 metricubi l’anno di gas consumato. A questo punto la casa tiene la temperatura per molte ore, e posso pensare di scaldarla, anziché con termosifoni, con una pompa di calore anche relativamente piccola. Ho un condizionatore con funzione pompa di calore (ormai quasi tutti ce l’hanno) e una buona efficienza (COP di 4), che tengo acceso per diverse ore durante la giornata (quanto è più efficiente), e la casa resta calda fino al mattino dopo. Il tutto con consumi elettrici abbastanza modesti, e una bolletta elettrica che è metà di quella del gas risparmiato, parliamo di meno di 100 euro l’anno

Ma gli interventi costano, e un risparmio anche di 1000 euro l’anno si ammorterebbe in tempi lunghissimi. Chi ha case colabrodo tipicamente non ha qualche decina di migliaia di euro da investire, è tanto se arriva a fine mese. Ma tutto questo non serve solo a ridurre le bollette, che poi finisce che siamo alle solite: anche partendo dalla stessa casa, chi è ricco finisce per avere una bolletta di 100 euro ed una casa confortevole, il povero si tiene la sua piena di spifferi e fredda nonostante la bolletta di oltre 1000 euro. Il punto è che vogliamo eliminare completamente il gas. E allora il povero come fa? Stufetta elettrica e bolletta da 3000 euro? Chiaro che vanno trovate altre soluzioni. 

Ci si è provato con il superbonus, ma i risultati non sono stati eclatanti. Un intervento limitato nel tempo che ha creato un assalto alla diligenza, esplosione dei prezzi, una grossa fetta di interventi a favore di chi ne aveva meno bisogno (ma non la maggior parte, come si dice: vero che metà degli interventi riguardano case unifamiliari, ma l’altra metà condomini magari di 50 appartamenti l’uno, per un 80% dei soldi spesi). Servono interventi più mirati, e strutturali, spalmati sui 25 anni che abbiamo da qui al 2050. Ma vanno fatti. 

Qui cosa significa “neutralità energetica”? Essenzialmente mantenere il gas. Avere caldaie un po’ più efficienti (una caldaia a condensazione è meglio di una non, ma “meglio” significa un 10% di risparmio). Ritardare il più possibile obblighi verso sistemi differenti, che non usino gas. Magari estrarne dai pochi giacimenti nazionali che ne hanno ancora, stabilire accordi con paesi produttori. È chiaro che il gas servirà ancora, per anni, e magari giocherà un ruolo importante quando avremo gas di sintesi, prodotto quando eolico e fotovoltaico saranno in quantità tali da avere periodi di esubero sostanziale. Ma dobbiamo cominciare ora ad eliminarlo, dovunque questo sia fattibile, e il riscaldamento delle case è la scelta più ovvia per cominciare. Il gas non è neutro, è un male minore necessario, da cui uscire il prima possibile

Cattura del carbonio

Ma se continuassimo a bruciare fossili, ma catturassimo l'anidride carbonica emessa? O la eliminassimo in partenza, derivando idrogeno dal metano (il cosiddetto idrogeno blu)? 

La cattura del carbonio si fa già ora, ma in quantità molto limitata: nel 2022 sono state catturate circa 40 milioni di tonnellate di CO2, contro i 37 miliardi di tonnellate emessi, lo 0,1%. Estrarre l'anidride carbonica quando è già diluita in atmosfera è complicato, costoso ma fattibile. Ci sono alcuni impianti pilota, ma i soli che funzionano davvero sono quelli che sfruttano alcune rocce particolarmente reattive, in Islanda. Gli altri impianti esistenti sono soprattutto legati all'industria estrattiva: si separa e reimmette nel sottosuolo la CO2 contenuta nel gas naturale, o si pompa CO2 in un giacimento di petrolio per facilitarne l'estrazione, si tratta quindi di sistemi che alla fine riducono un pochino le emissioni, non le intaccano. 

È più efficiente catturare la CO2 direttamente dal camino della centrale. In questo caso si ha una diminuzione dell'efficienza energetica, costi maggiori dell'energia prodotta, ma effettivamente non si emette in atmosfera. Il problema è cosa farne, della CO2 catturata. Semplice, la si reinietta nel terreno, dicono i sostenitori di questa  tecnologia, ma non è così semplice. Ad oggi esistono due siti in cui questo viene fatto, e si sono già evidenziati problemi non piccoli di tenuta. Ma soprattutto spaventano i volumi, i giacimenti esauriti di gas in Italia basterebbero per immagazzinare pochi mesi delle nostre attuali emissioni. Ha senso tutto questo solo se legato alla produzione di metano di sintesi: brucio metano in inverno, quando non ho sufficiente fotovoltaico, immagazzinando l'anidride carbonica sottoterra. In estate, quando il fotovoltaico è in esubero, lo utilizzo per produrre idrogeno che, combinato con l'anidride carbonica nel processo Sabatier, diventa metano di sintesi.

Un discorso a parte merita l'unico metodo davvero efficace, la riforestazione, che difatti è incluso nei piani del green deal europeo. Le biomasse usate come combustibile sono pure un possibile sistema di cattura del carbonio, se vengono bruciate tramite pirolisi, e il carbone (biochar) residuo viene sepolto nel terreno. Ma per quanto non trascurabile, il contributo che può dare la riforestazione è limitato, basta appena per compensare quegli usi marginali dei fossili che non potremo eliminare.

Quindi la cattura del carbonio ha senso solo se fatta in modo ciclico, su combustibili di sintesi che vengono prodotti, in tempi diversi, utilizzando l'anidride carbonica catturata. La proposta è sviluppata in alcuni studi, tra cui questo documento, a cui ho contribuito. Di per sé la cattura del carbonio non ci consente di continuare a bruciare combustibili fossili. 

Energia nucleare

Molti partiti propongono un ritorno al nucleare. Qui tralascio completamente il discorso sul nucleare in sé, assumo per semplicità del discorso che esistano centrali nucleari sicure, affidabili, e che esista l'uranio per farle andare.

Viene fatto il confronto con la Francia, che con 57 reattori attivi produce l'80% della propria energia elettrica. Innanzitutto occorre guardare un po' più da vicino questi numeri. Se si considera il totale dei consumi energetici francesi, il contributo nucleare diventa solamente il 37%. Possiamo considerare che il fabbisogno energetico, gli usi finali di energia sono molti meno, ma ancora il nucleare ne copre circa la metà. Dovremmo quindi raddoppiare il numero di reattori. E dovremmo considerare che una quindicina di reattori sono in manutenzione, per stimare la necessità totale. Rapportato all'Italia, ci servirebbero oltre 100 reattori, probabilmente 120-130, per coprire i nostri fabbisogni. E ovviamente ci servirebbero entro il 2050.  

Chiunque proponga il nucleare dovrebbe tener conto di questi numeri. Un contributo al carico di base, diciamo di 10-20 reattori, è realisticamente realizzabile in questi tempi. E farebbe gioco, per avere una maggiore stabilità della rete. Trovare siti adatti (con il relativo consenso locale), soldi, ditte che eseguano i lavori per oltre 100 reattori la vedo onestamente irrealizzabile. 

Ma occorre comunque usare modelli di reattori già esistenti, non abbiamo il tempo per aspettare reattori di nuova generazione, mini-reattori modulari, reattori al torio o altre cose che esistono in realtà solo sulla carta. E questi sappiamo che costano (molto più delle rinnovabili) e che hanno tempi di realizzazione lunghi.

Qualcuno parla anche di fusione nucleare. Ci crederò dopo che avrò visto il primo impianto commerciale in funzione, è da quando ho 10 anni che la fusione "arriverà tra 20 anni". 

In conclusione: se qualcuno realizzerà una decina di reattori nucleari, dei tipi oggi esistenti, da qui al 2050, superando anche tutte le resistenze politiche (su cui QUI non mi esprimo), questi daranno un contributo al totale. Diciamo un 10%. Il restante 90% va fatto con le rinnovabili. Se al 2050 esisteranno nuovi reattori nucleari ultrasicuri, o reattori a fusione, ne riparleremo allora. Oggi non ci possiamo permettere il lusso di aspettare.   

In conclusione

La neutralità energetica, come presente nel programma di molti partiti, è solamente un alibi. È un proporre cose che non funzionano, che sappiamo che non funzioneranno mai, per non affrontare la realtà spiacevole delle cose che invece dobbiamo fare. È un ciccione di 120 chili con le arterie foderate di grasso che, di fronte al medico che li suggerisce una dieta, dice che lui, invece, farà tutte le mattine una passeggiata di 10 minuto col cane. 

Quel che dobbiamo fare lo sappiamo. L'Europa ha intrapreso una serie di provvedimenti che sono ancora insufficienti, ma vanno nella direzione giusta. Non fare neppure quelli è un suicidio.

sabato 9 marzo 2024

Esperienze di dialogo, più o meno riuscite

Il Comune di Livorno ha istituito, alcuni anni fa, un Tavolo delle Religioni, a cui erano invitate tutte le confessioni religiose presenti sul territorio. Ci sono dentro un po' tutti, cattolici, valdesi, musulmani, ebrei, buddhisti, Hare Khrishna, mormoni, e tanti altri, Livorno ha una lunga tradizione di multiculturalismo. Si tratta di un organo consultivo del Comune, presieduto dal sindaco (rappresentato da un assessore), che ha lo scopo di discutere di tematiche che coinvolgono le comunità religiose e di organizzare varie iniziative di dialogo tra visioni differenti. A questo riguardo sono state organizzate diverse iniziative e dibattiti, molto interessanti. Da diversi anni si sta inoltre cercando di avere una Sala del silenzio, nell'ospedale cittadino, un luogo di raccoglimento, meditazione, e (per chi prega) di preghiera. 

Firma del protocollo istitutivo del Tavolo delle Religioni
(dal sito del Comune di Livorno)

Due anni fa qualcuno ha notato che, in una società dove un terzo delle persone si dichiara non credente, il Tavolo era monco senza qualcuno che ne portasse i punti di vista. A riguardo è utile ricordare quanto dice il documento conclusivo della riunione di Vienna dei rappresentanti degli Stati partecipanti alla Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa (1986-1989), che all’articolo 16 recita: 

Al fine di assicurare la libertà dell’individuo di professare e praticare una religione o una convinzione, gli Stati partecipanti, fra l’altro, 1. adotteranno misure efficaci per impedire ed eliminare ogni discriminazione per motivi di religione o convinzione nei confronti di individui o comunità per quanto riguarda il riconoscimento, l’esercizio e il godimento dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali in tutti i settori della vita civile, politica, economica, sociale e culturale e assicureranno l’effettiva uguaglianza fra credenti e non credenti; 2. favoriranno un clima di reciproca tolleranza e rispetto fra credenti di comunità diverse nonché fra credenti e non credenti. 

Altri documenti della Comunità Europea ribadiscono il concetto: le organizzazioni filosofiche e non confessionali, a cui atei ed agnostici aderiscono, sono considerate allo stesso modo delle confessioni religiose. Il fatto di credere o meno in Dio (cosa che oltretutto non è neppure scontata per alcune religioni storiche, come alcune branche del buddhismo) non è una discriminante in uno Stato laico, che ha il compito di favorire una reciproca tolleranza. Quindi al Tavolo (che ha cambiato il nome in Tavolo delle Religioni e delle Spiritualità) hanno aderito l’Unione Atei ed Agnostici Razionalisti (UAAR) ed Arci Atea. Si Sono organizzate insieme alcune iniziative, con dibattiti interessanti sui punti che atei e credenti hanno in comune e sulla reciproca convivenza. 

Un cambiamento del genere deve essere ratificato. Si è discusso assieme sulle modifiche da fare al protocollo d'intesa, ed una volta che questo è stato accettato da tutti (cattolici inclusi) è stato approvato all'unanimità in Giunta Comunale. Ma al momento della firma, il Vescovo di Livorno ha comunicato che non avrebbe firmato. Le motivazioni sono state inviate in una lettera (privata) al Sindaco ma, anche dopo una richiesta formale, non sono state comunicate al Tavolo. Comunque è chiaro che l’oggetto del contendere, unica modifica sostanziale, è la presenza di associazioni di atei. 

A questo punto la situazione è di stallo: la firma del protocollo è stata sospesa, il Tavolo continua a riunirsi, ma il rappresentante della Chiesa Cattolica agli ultimi incontro non era presente. In uno Stato normale si proseguirebbe l’esperienza del Tavolo senza la presenza della componente cattolica, ovviamente sempre benvenuta qualora cambiasse idea, ma non siamo in uno Stato normale. Un tavolo che ha lo scopo di favorire il dialogo funziona male se manca la maggiore componente, e a maggior ragione il Comune (ma in realtà nessuno) vuole lo scontro. In una città dove protestare perché suonano le campane alle 6 di mattina è considerato un gesto intollerante, dove ad ogni manifestazione pubblica è presente un sacerdote cattolico a benedire, dove il giornale locale pubblica articoli a piena pagina in cui il Vescovo parla di possessioni diaboliche e di come combatterle, è anche ritenuto normale che la Curia imponga condizioni al Comune.

La posizione della Curia (non posso dire della Chiesa Cattolica, che include voci ben diverse da questa) tradisce un concetto di società civile che è poco definire preoccupante. È difficile entrare nella testa delle persone, in particolare di quelle che non ti ritengono degno di spiegazioni, si può solo fare supposizioni. Ma se uno non vuole entrare in un organo istituzionale perché questo comprende anche persone che non condividono la tua visione metafisica, mi sembra lecito supporre che si voglia che lo Stato privilegi chi la condivide. Che si ritene sia compito dell’amministrazione comunale favorire chi ricerca il Divino, che questa ricerca faccia parte dei suoi compiti. Che si pensa che chi, ricercando il Divino, sia giunto alla conclusione che non c’è, o che comunque non sia possibile dire qualcosa a riguardo, sia un nemico da combattere, con cui non puoi sedere allo stesso tavolo. A sostegno di questa interpretazione probabilmente si possono leggere diversi interventi del Vescovo contro l’avanzare di una cultura scristianizzata e del laicismo. Ovviamente il Vescovo ha tutti i diritti di ritenere la propria visione del mondo migliore di quella laica. Ha tutti i diritti, se lo vuole, di istituire tavoli interreligiosi in cui decide liberamente chi possa o meno aderire. Molto meno di dire al Comune chi possa o meno aderire ad un tavolo istituzionale, o quali scopi questo tavolo debba avere. 

Oppure semplicemente la Chiesa cattolica non è interessata al dialogo. A denti stretti può accettare quello con altre confessioni cristiane. A denti ancora più stretti con chi non condivide i suoi testi sacri. Ma assolutamente no con chi non condivide l’idea di fondo di un Dio ultraterreno a cui riferirsi. In questo comunque non si capisce il rifiuto di aderire: puoi aderire ad in tavolo pur mantenendo una posizione fortemente critica con alcune delle componenti (e sottolineo, questo non è mai successo con il rappresentante cattolico, pur nominato dal Vescovo). 

Il Tavolo comunque andrà avanti, ufficiale o meno. Si cercherà di organizzare, sperabilmente con il Comune, e con o senza il mondo cattolico (che magari parteciperà in altre forme) un incontro sulla spiritualità. Termine ambiguo, ma esiste una spiritualità laica, che fa a meno del soprannaturale. Trascendenza è anche tutto quel che va oltre la nostra umanità: il mondo in cui viviamo, la nostra limitatezza e il concetto stesso di limite, l’immensità del cosmo da esplorare, il nostro ruolo qui ora, il significato del vivere (che dobbiamo costruirci da noi), la riflessione sulla morale e sulla socialità, su quello che ci rende uomini. Tutti temi che non richiedono necessariamente un Dio che ci dica Lui cosa dobbiamo pensare a riguardo. Sui quali un interscambio franco, senza pregiudizi, è utile a tutti, credenti o meno. 

Un altro tema importante, che piacerebbe affrontare, è come confrontarci con chi ha verità diverse dalle nostre. Non solo visioni religiose, spesso inconciliabili, ma anche su tante altre cose. Vedremo se si riuscirà a fare anche questo.

domenica 7 gennaio 2024

Ventilazione meccanica controllata

Un problema che sento spesso imputare all'isolamento delle case è che così l'edificio "non respira". Sembrerebbe che isolare un muro impedisca all'umidità di uscire, mentre i vecchi muri di mattoni fossero permeabili all'umidità come un giaccone di Goretex. Comincio subito con un chiarimento: i muri non respirano. L'umidità esce dalle vecchie case essenzialmente per due motivi: gli spifferi, che abbondano, e la condensa sulle finestre, che essendo fredde raccolgono l'umidità. Quindi il problema maggiore di un isolamento pensato male è proprio il fatto che si cerca di evitare gli spifferi e si isolano le finestre. Il cappotto non c'entra, anzi, impedendo ai muri di raffreddarsi evita punti di condensa su di questi, dove poi la muffa prospererebbe alla grande. Il discorso del cappotto che impedisce all'umidità di uscire è quindi una bufala. Un cappotto fatto bene (e chi lo progetta in genere sa usare gli strumenti per prevenire la condensa, come il diagramma di Glaiser) riduce la formazione di condensa nei muri. 

Muffa in un angolo, punto freddo per eccellenza e sede di condensa

Ma il problema di fondo rimane. Noi produciamo un sacco di umidità: respirando, cucinando, asciugando la biancheria o anche solo i giacconi bagnati di quando rientriamo dalla pioggia. In una casa tipica sono 6-10 litri d'acqua ogni giorno, che da qualche parte devono finire. Preferibilmente non in un muro. Possiamo usare un deumdificatore, un apparecchio che fa passare l'aria su una serpentina fredda, condensando l'acqua in eccesso. Sono apparecchi che però consumano parecchio, 2-300 watt, alla fine del mese sulla bolletta li senti. 

In aggiunta c'è il problema, meno vistoso, dell'anidride carbonica. Anni fa acquistai un misuratore e constatai che 4 persone in una casa di 80 metriquadri portano le concentrazioni di CO2 a livelli decisamente fastidiosi in poche ore. Sappiamo che la capacità di concentrazione e le prestazioni mentali calano in modo significativo già a 6-700 parti per milione di CO2, e in una casa chiusa non è difficile superare le 1000. Se poi si cucina occorrerebbe tenere la finestra aperta, le 1000 ppm si raggiungono con una semplice spaghettata. Uno dei motivi per passare alla piastra ad induzione. 

E allora come si fa? Gli installatori di finestre che ho sentito ti suggeriscono un semplice rimedio, che però sembra una presa in giro: aprire le finestre. Serve farlo per pochi minuti ogni volta, ma spesso, in teoria ogni 2-3 ore. La perdita di calore rimane piccola e l'umidità esce. Ma ti viene da chiederti: ho installato una finestra ad alto isolamento, che costa un botto perché, tra l'altro, ha una tripla guarnizione che impedisce ogni spiffero, e la apro? E poi come faccio di notte, quando oltretutto fuori è più freddo ed il rischio di condensa è maggiore? 

L'idea di base del recupero di calore: scaldare l'aria che entra con quella che esce

Una soluzione è la ventilazione meccanica controllata (VMC) a recupero di calore. Un nome complicato per un concetto semplice: scaldi l'aria che entra in casa sfruttando il calore di quella che esce. Esistono diversi apparecchi che fanno questo, con un'efficienza di solito superiore all'80%. Non parlo qui di quelli che devono essere progettati assieme alla casa, con sistemi di areazione canalizzati (UTA), perché non ne ho esperienza e comunque difficilmente sono proponibili ad uno che cambia gli infissi. Quelli installabili senza troppi problemi sono essenzialmente di due tipi: a flusso alternato e a flusso incrociato. 


I primi (flusso alternato) sono simili ad un normale aereatore, che si installano nello spessore del muro in un foro passante. Nel tubo è presente un blocco di ceramica che si scalda quando il ventilatore espelle l'aria, e riscaldano quella che entra quando la immette. Ne devi usare due, sincronizzati tra di loro, di solito in stanze diverse, che lavorano in senso opposto, uno espelle aria e l'altro la immette. Ogni pochi minuti si scambiano ruolo, in modo sincrono. Il problema è che devono necessariamente lavorare in coppia, e che occorre un modo per farli comunicare tra di loro: un filo (un doppino come quello del telefono) o una connessione wifi. Questa tipologia ha un rendimento minore in quanto il blocco di ceramica assorbe o cede calore bene nella fase iniziale del ciclo, ma peggio nella fase finale, quando ha esaurito la sua capacità. I valori misurati di recupero sono intorno al 60-70%, contro l'80-85% tipico degli apparecchi a flusso incrociato.


Gli scambiatori a flusso incrociato sono oggetti delle dimensioni di uno split da condizionatore. Richiedono due fori, e i due flussi d'aria si scambiano il calore in un oggetto composto da piastre alternate. Hanno il vantaggio di non richiedere collegamenti, ma sono decisamente più ingombranti. Inoltre i flussi entrante e uscente sono necessariamente vicini tra di loro, e il rischio è di ricambiare l'aria solo in prossimità dell'apparecchio. Comunque sembrerebbe che nella pratica ci riescano. Hanno tipicamente un'efficienza maggiore di quelli a flusso alternato (dichiarato sopra il 90%, nella pratica, come da misurazioni Casaclima, intorno all'80-85%).

Da notare che in tutti questi apparecchi l'efficienza cala parecchio (fino al 50%) con il volume d'aria trattata. Come del resto peggiora il rumore (a bassa portata sono tipicamente silenziosissimi, mandati al massimo decisamente no), il consumo (comunque molto basso, qualche watt per unità) e anche la durata della meccanica. Altro vantaggio è la riduzione della polvere, in quanto l'aria esterna viene comunque filtrata.

Ho provato entrambi e mi ritengo molto soddisfatto. L'umidità è sparita, si riesce a cenare in compagnia senza che la concentrazione di CO2 schizzi alle stelle, e la stanza dove sono situati rimane calda. In una casa ne ho messo solo uno (alternato, con gli spifferi che per ora provvedono a bilanciare il flusso), in attesa di cambiare le finestre, vecchie di alluminio. L'alluminio è un ottimo ponte termico, e se la notte è fredda trovo letteralmente mezzo litro d'acqua sui telai delle vetrate, tranne nelle stanze servite dall'aereatore, che sono  assolutamente asciutte. 

La finestra della stanza con aereatore (sopra, asciutta), e quella (sotto) della stanza in cui lo metterò in futuro
Allora come mai non li si vede in giro? Il problema dell'umidità è diffusissimo. Nella casa dove devo cambiare le finestre sono venuti diversi installatori per il preventivo, e nessuno aveva mai visto un oggetto del genere. Tutti ne sono rimasti colpiti, come una soluzione geniale ad un problema che sentono. Ma dovrebbe essere il loro mestiere, proporre di cambiare le finestre senza un VMC ha poco senso. Forse perché sono oggetti piuttosto cari (arrivi facilmente a 1000 euro per un sistema completo in un appartamento), aprire le finestre sembra più economico. Fino a quando non ti trovi la muffa in casa perché non l'hai fatto abbastanza.

venerdì 29 dicembre 2023

Un mito scritto 2700 anni fa

 Da cristiano mi sono letto la Bibbia, ed in particolare i primi libri (quelli definiti "storici") diverse volte. Mi hanno insegnato che si tratta di una redazione relativamente recente, nel settimo secolo AC, di miti ambientati molto prima. Abramo viene collocato intorno a metà del secondo millennio AC, circa il 1500, Mosè tra il 1300 e il 1200, e Davide (di cui abbiamo le prime tracce storiche) a cavallo del 1000.

Ma quanto di tutto questo è storia? Quando l'ho studiato io, 40 anni fa, si riteneva a grandi linee sostanzialmente tutto, e al di fuori dagli ambienti accademici tuttora i patriarchi biblici e l'Esodo sono narrati come fatti storici. Oggi invece le ricerche archeologiche di questo ultimo mezzo secolo ci hanno mostrato che quasi niente lo è (nota: ho imparato tutto questo in lezioni tenute da una pastora valdese, il fatto che certe narrazioni siano miti è evidentemente compatibile con una fede matura). Niente di quello che precede Saul e Davide, per cominciare, ha senso storico. Da Davide in poi abbiamo riscontri storici, oltre che archeologici, che ci raccontano però una storia differente da quella biblica.

Si tratta comunque di una narrazione teologica, il cui nucleo era: Dio ha stabilito un patto con Abramo e i suoi discendenti, assegnandogli una terra che comprende l'attuale Israele e i territori limitrofi, in cambio della assoluta fedeltà cultuale. Gli israeliti dovevano eliminare fisicamente qualunque altro popolo in quel territorio, e non sposare donne straniere, o adottare usanze straniere. Dovevano rispettare tutti i suoi comandi, ed adorarlo (una volta insediati) solo in un unico tempio. Se il popolo avesse trasgredito, sarebbe stato sconfitto dai nemici.

Cominciamo con la Bibbia. La storia è abbastanza nota fino a Mosè, poi si glissa un pochettino, perché un popolo in esilio, perseguitato da un cattivo faraone, che si libera ed ottiene la sua terra promessa è una bella storia. Un popolo che passa a fil di spada tutti gli sfortunati abitanti di quella terra, votandoli allo sterminio (significa che se non li ammazzavi proprio tutti, YHVH si incazzava e non ti appoggiava più) è meno edificante. E va bene tutto, incluso pugnalare a tradimento chi hai ospitato nella tenda. Una sola città si salva, con uno stratagemma: si fingono abitanti di una terra lontana, e stringono un'alleanza. Le alleanze sono sacre, e quindi non possono essere trucidati, ma vengono maledetti per l'imbroglio e ridotti a schiavi.

Una volta insediati la pulizia etnica funziona bene nel territorio assegnato a Giuda, ma nei territori delle rimanenti tribù rimangono enclavi. La storia è un susseguirsi di guerre, con questi nemici interni che non accettano di essere eliminati, e con le popolazioni vicine. La Bibbia ce le racconta come tradimenti del popolo eletto, che cede al rimescolamento culturale, accoglie donne straniere o addirittura adora dei diversi da YHVH, viene sconfitto, riacquista la fedeltà sotto la guida di persone pie (i giudici), e quindi massacra i nemici. In particolare, poco prima del 1000, nella striscia di Gaza sono particolarmente aggressivi i Filistei, e le 11 tribù si coalizzano sotto la guida di un re, Saul. Ma Saul tradisce YHVH e viene quindi rimpiazzato da Davide. Davide sgomina i nemici, e governa un prospero regno unitario che si estende su tutta la terra promessa, con capitale la neoconquistata Gerusalemme. Il trono passa al saggio Salomone, che porta il regno a vette di prosperità.

Ma anche Salomone alla fine prende nell'harem una straniera e YHVH, incazzato, provoca una grossa secessione. La dinastia davidica regnerà solo sulla Giudea (la zona tra Gerusalemme e il Negheb), le altre 10 tribù si separeranno nel regno del Nord, Israele (che comprende Samaria e Galilea). Giuda resterà fedele, ma Israele avrà frequenti cedimenti agli dei stranieri, meritando punizioni divine che culmineranno con l'invasione assira, la distruzione e la deportazione, nel 720 a.C. circa.

La Giudea rimane salva per un altro secolo, ma sia pure senza distruzioni o deportazioni di massa verrà conquistata dall'impero babilonese, con l'esilio dell'aristocrazia. E' la fine della dinastia di Davide. Per loro fortuna Ciro sconfigge i babilonesi e rimpatria i quadri giudei a Gerusalemme, ricostruendogli il tempio. In questo contesto nasce la religione ebraica come la conosciamo, e lo stato giudaico raccontato nella Bibbia, essenzialmente una teocrazia che durerà fino alla distruzione di Gerusalemme del 50.

Fin qui la Bibbia. Ora vediamo cosa dice la storiografia.

Non sappiamo se siano esistiti Abramo, Isacco, Giacobbe e i suoi 12 figli. I racconti descrivono bene gli usi dei nomadi, le città e le popolazioni dell'area nell'ottavo secolo, in cui le leggende si consolidano, ma non torna nulla con la geografia e le usanze del 1500-1300 AC, in cui le storie sono ambientate. L'ipotesi più probabile è che si tratti di leggende collegate a mitici capistipite di diverse popolazioni e tribù, riunita in un'unica saga familiare, un po' come oggi tendiamo a mettere insieme Superman, Batman, Wonder Woman e amici vari in un film tipo Justice League.

Michelangelo: Mosé (da Wikipedia)

Non abbiamo nessuna traccia di un esodo dall'Egitto, sicuramente non nei termini descritti dalla Bibbia. In Egitto spesso troviamo popolazioni cananee, rifugiatesi per sfuggire a carestie, quindi è possibile che un piccolo gruppo di persone abbia vissuto qualcosa di simile all'esodo, ma al massimo può essersi trattato di alcune centinaia di persone. All'epoca l'Egitto controllava in modo militare la regione, e un grosso gruppo di fuggitivi sarebbe stato intercettato, o quantomeno segnalato, dai numerosi posti di guardia sparsi per il Sinai. Non esistono tracce archeologiche di insediamenti di gruppi di nomadi di migliaia di persone che abbiano vagato per 40 anni nei posti descritti nel racconto di Mosé.

La storia della conquista della Terra Promessa da parte di Giosué pure non torna con le evidenze archeologiche. All'epoca la regione era una provincia egizia, e difficilmente la superpotenza sarebbe stata a guardare una tale carneficina di ricchi tributari. Le ricche città cananee vennero distrutte, ma da "popoli del mare", circa un secolo dopo, assieme alle città delle regioni vicine. I villaggi israelitici compaiono in quel periodo, ma non provengono da fuori, sono gruppi di nomadi che formano insediamenti stanziali sugli altopiani tra la costa e la valle del Giordano. Non hanno inizialmente una struttura unitaria, ma probabilmente sviluppano una loro identità etnica. E tra il 1100 e il 900 a.C si sviluppa una loro organizzazione statale.

Michelangelo: Davide

E arriviamo a Davide e Salomone. Al tempo di questi personaggi (probabilmente effettivamente esistiti) la Giudea era un insieme di villaggi di pastori, Gerusalemme era un centro di culto piccolissimo, povero, con mura ma senza nessun edificio di rilievo, né le strutture necessarie per la capitale di un grosso stato. Il favoloso tempio e il palazzo di Salomone, nei resti archeologici del periodo, non esistono. Salomone non ha costruito palazzi fuori dalla Giudea (i resti archeologici inizialmente attribuitigli sono di un secolo più tardi) e non commerciava con Saba. Su Davide i pareri sono discordanti, forse era solo un re locale, forse davvero regnò anche sul regno del Nord di Israele o su una sua parte.

Israele invece, grazie alla migliore posizione, era parecchio più prospero. Geroboamo, il primo re secessionista, mette insieme un esercito con 10 mila cavalieri e tiene testa ad invasori (il contrario di quanto descritto nella Bibbia, che lo descrive sconfitto per le sue infedeltà). Fonda città imponenti, con palazzi e sistemi di approvvigionamento idrico. Se un regno unitario esisteva, probabilmente era Giuda ad essere il vassallo. Le cronache del tempo citano Israele, mentre gli accenni alla Giudea sono rarissimi.
Gerusalemme acquista importanza dopo la caduta di Israele. E sotto il regno di Giosia (639-609 a.C.), diciasettesimo discendente di Davide, nasce il mito di un antico stato unitario benedetto da YHVH. Gerusalemme è la capitale santa, che di diritto deve governare anche su Samaria e Galilea. 

Questa narrazione ha condizionato la storia umana negli ultimi 2000 anni, e continua a farlo. Il cristianesimo è nato su quell'impronta: Gesù è raccontato come il nuovo Davide (poco importa che le due genealogie che giustificano questo titolo siano inconsistenti), con un nuovo popolo eletto, ma la salvezza viene SOLO dalla assoluta fedeltà del culto. Per i cattolici è la gerarchia di Roma (extra ecclesia nulla salus), per i protestanti la fede nel potere salvifico di Cristo. L'Islam è una ennesima riforma, questa volta definitiva, con un nuovo popolo eletto, ma la centralità del culto (anche geografica, con una nuova Gerusalemme a La Mecca) rimane il caposaldo. E viviamo in diretta una campagna di conquista, con annessa pulizia etnica, per il mitico regno unitario, forse mai esistito, con Gerusalemme a capitale.

Su questa narrazione si è innestato il meglio della nostra umanità: le istanze di eguaglianza sociale deuteronomiche, il discorso della montagna e la fratellanza universale predicata da Gesù, la musica di Bach, la cappella Sistina, la Zakat islamica, l'umorismo Yiddish... Ma anche il peggio: l'idea che sei un popolo eletto e quindi superiore agli altri, l'intolleranza per chi non condivide la tua narrazione, la confusione tra fedeltà cultuale e moralità (solo chi segue il Dio giusto può essere buono). Forse rendersi conto che si tratta di miti ci aiuterebbe a tenere solo il meglio. Speriamo.

domenica 21 maggio 2023

Un'Italia tutta rinnovabile

Gli eventi degli ultimi giorni ci hanno ricordato che la crisi climatica è qualcosa di reale, con conseguenze serie. I climatologi intervistati il giorno dopo i disastri han detto tutti la stessa cosa: episodi come questo sono eccezionali, superano ogni evento analogo degli ultimi 100 anni, ma diventeranno la nuova norma. E rischiano di essere solo un assaggio di quelli futuri. Quindi non abbiamo alternative, dobbiamo rinunciare ai combustibili fossili, e farlo il prima possibile, oggi è già troppo tardi. E sottolineo, non dobbiamo ridurre le emissioni dobbiamo eliminarle.

Ma come farlo? Chi ne parla attualmente spesso fa parte di uno di due schieramenti contrapposti: chi dice che è inutile provarci, i cambiamenti climatici ci sono sempre stati e non sono colpa nostra, o comunque quel che facciamo è irrilevante perché la Cina brucia carbone. Dall’altro lato chi la fa facile, basta mettere un po’ di fotovoltaico sui capannoni, o spegnere le luci quando si esce dalla camera. Ma per carità non le pale eoliche che sono brutte. Cose di cui ho parlato qui, non sto a ripetermi.
ASPO Italia, una associazione di cui faccio parte, ha appena pubblicato uno studio in cui si analizzano i consumi energetici attuali italiani, e la possibilità (teorica, con varie ipotesi) di soddisfarli utilizzando energie rinnovabili. Il documento può essere scaricato qui. (Nota: il documento è scaricabile liberamente, ma se ne citate dei pezzi va riportata la fonte). 
Riporto qui il sommario del lavoro. Che è un documento di 122 pagine pieno di numeri e riferimenti, quindi se vi sembra che "non avete considerato questa cosa qui" leggetelo prima e verificate se è vero. 

Verso un sistema energetico italiano basato sulle fonti rinnovabili

Prima parte: analisi introduttiva, problematiche e scenari propedeutici

Sommario

Scopo di questo lavoro è valutare la generale fattibilità di un sistema energetico italiano completamente basato su fonti energetiche rinnovabili. In particolare, si sono volute quantificare le dimensioni necessarie per l’apporto di fotovoltaico ed eolico, e le problematiche legate alla intermittenza di queste fonti, sia su scala circadiana che annuale. Si è confrontato quindi un ipotetico profilo di produzione, basato sui dati reali di produttività degli impianti esistenti per ciascuna delle 8760 ore che compongono un anno, con il profilo di consumo derivato, con alcune assunzioni, da quello reale del 2019.
Il confronto è basato su un modello e su assunzioni differenti in relazione alle possibili strategie per affrontare il problema. Il lavoro non è quindi un piano energetico o il progetto di un sistema energetico reale, ma solamente uno strumento per fornire indicazioni quantitative sulle dimensioni attese e sui problemi che questo sistema dovrà affrontare.
La prima assunzione fatta riguarda la completa elettrificazione dei consumi, utilizzando le tecnologie più efficienti oggi disponibili. In questo modo è possibile ottenere la stessa energia finale (calore, movimento, servizi) utilizzando annualmente 700 TWh (miliardi di kWh) di energia elettrica anziché i 1800 TWh di energia primaria (quella contenuta soprattutto in combustibili fossili) che utilizziamo oggi.

  Flusso dei consumi energetici in Italia nel 2017 secondo il LLNL su dati dell’IEA.

Nel corso del lavoro abbiamo visto però che non è realisticamente possibile realizzare sistemi di accumulo, soprattutto stagionale, in grado di coprire questi consumi in modo continuativo. Sarà anche necessario ridurli in modo importante, attraverso misure di sobrietà, efficienza e risparmio. L’unica simulazione in cui abbiamo verificato una copertura totale dei consumi prevede un fabbisogno annuo di 350 TWh, cioè la metà del fabbisogno attuale. Il solo incremento dell’efficienza energetica non basta, occorre dimezzare la domanda finale di energia. Per coprire questi fabbisogni servirà una massiccia installazione di impianti fotovoltaici ed eolici, come dettagliato più avanti.

L’intermittenza giorno-notte, soprattutto del fotovoltaico, può essere coperta disponendo di sistemi di accumulo per circa 4 kWh ad abitante. Per quanto si possano utilizzare gli attuali sistemi idroelettrici a doppio bacino, la maggior parte dell’accumulo deve essere realizzata con batterie. Questo richiede, con la tecnologia attuale (batterie agli ioni di litio), circa 650 grammi di litio ad italiano che, distribuiti sulla durata attesa delle batterie, è molte volte superiore all’attuale produzione mondiale per abitante della Terra. Occorrerà quindi prevedere un aumento della produzione, e un efficiente riciclo delle batterie a fine vita. Il problema potrà essere in buona parte risolto dall’avvento delle batterie a ioni di sodio, attualmente in fase avanzata di studio e sperimentazione.

Anche con un efficiente sistema di accumulo giorno-notte, le variazioni stagionali comportano un esubero di produzione estivo e un ammanco invernale. Periodi estivi con assenza di vento provocano ammanchi notturni anche nei mesi estivi. È quindi necessario un sistema di accumulo stagionale. L’accumulo idroelettrico non è assolutamente adatto, e comunque è più efficacemente utilizzato per l’accumulo nel breve periodo.

Abbiamo ipotizzato a questo scopo l’utilizzo di gas metano di sintesi, accumulato negli attuali stoccaggi per il gas naturale e utilizzato per produrre energia elettrica nelle attuali centrali turbogas. Il metano verrebbe prodotto dall’esubero estivo di energia (processo Sabatier) a partire da idrogeno “verde” e anidride carbonica catturata dai camini delle centrali. Il processo è differente da quello attualmente suggerito (stoccaggio diretto dell’idrogeno), ma le rese finali, includendo tutte le perdite, e le capacità di accumulo sono confrontabili.

Anche utilizzando tutti i depositi geologici disponibili sul nostro territorio, nella situazione in cui si mantenga il fabbisogno di energia finale attuale si verificherebbero ammanchi di energia per il 20% del tempo totale, concentrati in particolare nelle ore notturne dei mesi invernali. Come indicato sopra, sono pertanto necessarie misure importanti di riduzione dei consumi energetici. 

 In conclusione, se un sistema basato su rinnovabili è fattibile, per garantire la copertura dei fabbisogni in ognuna delle 8760 ore che compongono un anno serve uno sforzo notevole su molti fronti.

Sul lato della produzione si dovrà comunque fare affidamento sulla realizzazione, gestione, manutenzione e periodica sostituzione di una grande infrastruttura energetica, la cui sostenibilità in termini energetici (EROI complessivo) e finanziari deve essere approfondita. Nell’ipotesi più favorevole considerata (riduzione al 50% della domanda) saranno necessari:

  •  250 GW di fotovoltaico: l'equivalente della superficie della cittàmetropolitana di Milano (circa 1600 km 2 ) coperta con pannelli fotovoltaici. Questo corrisponde ad una potenza installata di 4 kW pro capite o circa 27 m 2 pro capite di pannelli fotovoltaici.
  • Questi possono essere realizzati in principio sia sulle coperture degli edifici (civili, industriali e commerciali) sia su aree non costruite. In quest'ultimo caso forzatamente su aree marginali non utilizzate per l'agricoltura e senza pregio ambientale. Il tutto su un'area che rappresenta lo 0,5% della superficie nazionale, per un’infrastruttura realizzabile senza devastazioni ambientali, seguendo le buone pratiche attuali.
  • 80 GW di eolico: alcune migliaia di km di pale eoliche (più potenti saranno, meno ne saranno necessarie), poste sia sui crinali che in campi eolici off-shore, dove hanno maggiori potenzialità. Queste corrisponderebbero a un totale di una torre eolica da 5 MW ogni 4000 abitanti.
  • Sistemi di accumulo energetico giorno-notte molto estesi, costituiti prevalentemente da batterie, coadiuvati dagli impianti idroelettrici a pompaggio esistenti. Serviranno circa 4 kWh ad abitante.
  • Impianti di cattura dell’anidride carbonica.
  • Impianti di produzione di idrogeno, per una potenza installata di idrolizzatori pari a 100 GW. Considerato che i più grossi idrolizzatori industriali hanno una taglia da 5 MW, dovremmo installarne circa 20 mila. Si tratta di migliaia di impianti industriali. A questi, nell’ipotesi considerata di usare metano come gas di accumulo, vanno aggiunti metanizzatori per 75 GW, dove effettuare la sintesi tra anidride carbonica e idrogeno.
  • La realizzazione dell’infrastruttura necessaria al trasporto e stoccaggio di metano, idrogeno, e anidride carbonica, basata sull’attuale sistema di trasporto e stoccaggio del metano naturale.
  • L’adeguamento della rete elettrica al trasporto dell’energia generata in modo intermittente su lunghe distanze. Questa deve integrarsi con la rete europea, per compensare la maggior produttività invernale dell’eolico nel Nord Europa con quella estiva del fotovoltaico nel Sud.

Ma è anche necessario un deciso intervento sul lato dei consumi. Il forte sbilancio tra produzione estiva e consumi invernali non può essere risolto neppure con il ricorso molto importante e cumulato di tre diverse scelte tecnologiche: il sovradimensionamento al 150% dell’installato, l’accumulo di breve periodo e, con tecnologie power-to-gas, l’accumulo stagionale. Risulta necessario: 

  •  elettrificare tutti gli attuali consumi energetici nel modo più efficiente possibile: ad esempio utilizzo di pompe di calore, illuminazione a LED;
  • ridurre i consumi con interventi anche drastici. Dalla riqualificazione energetica degli edifici, all’introduzione di limiti alle temperature massime del riscaldamento invernale e del raffrescamento estivo, passando per l’incentivazione alla riduzione della mobilità automobilistica verso forme di mobilità “leggere” e alternative;
  • modulare i consumi in funzione della disponibilità di energia. Si deve partire necessariamente dallo studio della modifica della domanda in modo che possa meglio adeguarsi al profilo orario di produzione da rinnovabili, minimizzando gli ammanchi osservati negli scenari di questo lavoro.

Tutto questo avrà un impatto che noi riteniamo inferiore (e diverso) sulla biosfera, di cui (ne siamo pienamente coscienti) siamo parte. In natura non sono dati pasti gratis. Per realizzare questo passaggio sarà necessaria una lunga transizione, si parla infatti di tre decenni, ma si deve iniziare subito e su tutti i fronti elencati. La pena non è il ritorno ad una società sostenibile basata sull'agricoltura e sull'artigianato, perché una società del genere è socialmente non sostenibile per 60 milioni di persone. Ma il suo collasso avrebbe un impatto ecologico molto maggiore e porterebbe forse alla guerra, all'instaurazione di regimi autoritari e probabilmente ad ambedue le cose.